i Murales Lu zicchie (la lippa)
Dino Fiorini 2009
Il gioco consisteva nel far saltare in aria un bastoncino di una quindicina di centimetri appuntito alle etremità battendolo con un bastone più lungo (all’incirca cinquanta centimetri) per poi percuoterlo al volo e mandarlo il più lontano possibile.
A Teramo si chiamava chimè, a Chieti tric-trac, all’Aquila ju zirè, a Pescara mazze e cuzze, a Roseto lu pirule. A Roma lu zicchie si chiamava ’a nizza. Gli attrezzi necessari per eseguire questo gioco venivano di solito ricavati da un manico di scopa come risulta da questa breve e divertente poesia di Giorgio Roberti, in romanesco: La nizza
Nonna struscia e stornella, e se specchia…
Stamattina se vede troppo gobba e troppo vecchia.
e m’ammolla ’na pizza.
L’ha capita: j’ho accorciato la scopa pe’ fa a nizza!
Camillo quando usciva per il paese portava sempre con sé lu zicchie. Sapeva che prima o poi avrebbe incontrato qualcuno con cui farsi una bella partita. Per giocare allo zicchie già aveva tutto: un pezzo di bastone lungo circa una cinquantina di centimetri e uno molto più corto, venti centimetri circa, con le estremità appuntite, che doveva essere colpito e mandato il più lontano possibile. Si giocava in coppia, con posizioni antagoniste. Si poteva giocare anche in diversi con inserimento a turno al posto di chi usciva. Per stabilire a chi spettasse il compito di battitore e a chi quello di lanciatore di solito si faceva a “pari e dispari”. L’area di gioco doveva essere molto ampia e poco frequentata. Il primo requisito era sempre rispettato, sul secondo si sorvolava un po’. Molte partite si svolgevano, infatti, sul tratto di strada che andava da Azzinano a Morelli, dove c’era la fontana, sconfinando nell’ara di ’Ndraje e di Carlucce, sul Campo e, a volte, dentro la finestra di qualche ignaro paesano. Stabilito l’ordine di partecipazione, il numero delle battute e i punti da raggiungere, si tracciava per terra un cerchio dentro il quale si metteva il battitore che lanciando per aria o lasciando cadere lu zicchie doveva colpirlo a mezz’aria con la mazza per mandarlo lontano. Aveva a disposizione tre tiri, se li sbagliava tutti, doveva cedere il posto. A quel punto interveniva il lanciatore che raccogliendo lu zicchie lo rilanciava verso il battitore, il quale doveva cercare di respingerlo al volo per impedire che cadesse nel cerchio, nel qual caso avrebbe perso. Si perdeva, anche se cadeva fuori del cerchio, ma a una distanza inferiore a quella della mazza. Se caduto a debita distanza il gioco continuava e il battitore aveva tre possibilità: zicchie une, zicchie dù, zicchie trà. Ogni volta il giocatore doveva dichiarare lo zicchie e battere con la mazza il pezzo di legno a due punte e farlo zicchiare, cioè schizzare per aria, e colpirlo al volo per lanciarlo in un punto del campo il più lontano dal cerchio. Se l’operazione riusciva – in caso contrario era facilissimo per il lanciatore, molto vicino, buttarlo nel cerchio – il battitore faceva una valutazione della distanza e chiedeva un certo numero di punti. “Me ne prendo cinquanta” diceva il battitore, volendo alludere che secondo lui tra la base e lu zicchie c’erano cinquanta misure, pari ad altrettanti punti. “Non mi va bene, per me non ci esci! Misura!” poteva rispondere il lanciatore se non era d’accordo. In questi casi si procedeva alla misurazione, pezzo per pezzo, con la mazza del gioco. Un’operazione spesso lunga e faticosa, cui non era sempre estranea la “dispettosità” dell’altro. Finita la conta, non era detto che la cosa finisse lì, soprattutto quando il battitore ce la faceva per poche misure o pochi centimetri. “Rimisura!” arrivava perentorio il commento dell’altro che provava pure a giustificare la sua richiesta “in quel punto ti sei tirato un po’ indietro. Se misuri bene vedi che non ci esci”. Inevitabile scambio di polemiche con sostegno e intervento dei fans di ognuno, ma l’operazione doveva essere ripetuta, questa volta con l’occhio più attento e critico del lanciatore, pronto a cogliere ogni irregolarità o inesattezza. la misurazione non era un fatto semplice, come si potrebbe pensare, doveva procedere in linea retta seguendo gli avvallamenti del terreno e passando sopra gli eventuali ostacoli, non si poteva mica girarci attorno. Troppo facile! Le regole stabilite da sempre parlavano chiaro. Spesso in mezzo c’erano dei frattoni di rovi; affari di chi doveva misurare, era lui ad aver chiesto un numero di punti che non aveva convinto l’altro, “costringendolo” a chiedere la misurazione. Spesso a metà strada, dopo aver superato il tratto peggiore: “No, no, così non va bene! Ricomincia!”. “Ma com’è che non va bene se l’hai visto pure tu!” “non te ne sei accorto, ma lì al canaletto ti sei tirato indietro!”. Insomma, tra contestazioni, accuse, osservazioni, la conta procedeva spesso irta di difficoltà. Se poi uno dei due era particolarmente litigioso, era la fine. E quando si arrivava finalmente alla meta e la differenza a vantaggio del battitore era minima, ’na ’ntacca, non è detto che fosse finita. “Non è così…” se ne usciva il lanciatore tra l’indignato e l’offeso “dammi quella mazza che ci penso io a rimisurare!”. “Ma vaffa…, io non ci gioco più, tu mi vuoi imbrogliare!”. Non finiva sempre così. A parte le volte che la partita s’interrompeva perché si perdeva lu zicchie in mezzo a una siepe o su un tetto e quelle in cui finiva addosso a qualcuno di noi facendogli male, quindi per solidarietà e necessità di soccorso, qualche volta trovava anche la sua conclusione naturale.