i Murales Lu spare che lu carbure (sparo con il carburo)
Salvo Caramagno 2017
“Crescendo, i giochi divennero a volte più pericolosi come quando facevamo saltare per aria i barattoli di pomodoro che eravamo riusciti a trafugare ad Algisa, la bottegaia, o alle nostre mamme. Bastava un pezzo di carburo, un fiammifero e una bella… pisciata, operazione questa indispensabile per provocare la formazione di acetilene, ed ecco che il barattolo partiva come un razzo con relativo bum.
I più bravi erano quelli che riuscivano a tenere più a lungo il dito a tappare il buco sul barattolo in modo da far accumulare più gas con conseguente più forte esplosione. Fu così che un giorno io mi presi un colpo in fronte da lasciarmi un bernoccolo per quindici giorni e lino rischiò quasi una mano”. (L’Italia la siamo fatta noi!, pag. 191).
Il carburo era uno dei combustibili con cui, nei nostri paesi dove la luce sarebbe arrivata solo nel 1954, si alimentava lu lume a carbure, la lampada a carburo che, rispetto a quella a petrolio, a olio, o alle candele, costituì nel periodo del secondo dopo guerra decisamente un passo in avanti. Si accendeva subito, non puzzava molto ed era a luminosità graduabile e pratica da trasportare. Di carburo in paese ce n’era abbastanza, per via dei cantieri delle centrali idroelettriche del Vomano dove lavoravano molti azzinanesi. Procurarsene qualche pezzo non era un problema. Il gioco era come descritto sopra. Il carburo a contatto con l’acqua si decomponeva (un po’come fa il citrato) ed emetteva un gas, l’acetilene, infiammabile. Sul Campo noi avevamo creato le nostre postazioni belliche. l’occorrente era: il carburo, uno o più barattoli vuoti di pomodori bucati sul fondo e li fulmenande, cioè i fiammiferi. Poggiavamo un pezzo di carburo sul terreno, ci pisciavamo sopra (andare a prendere l’acqua era scomodo, come nel gioco de lu llisciacule), ci mettevamo sopra un barattolo avvitandolo ben bene nel terreno, mentre prontamente un altro di noi tappava il buchetto con l’indice per non far disperdere il gas che cominciava a sprigionarsi. Dal giusto tempo di attesa dipendeva la quantità del gas che si accumulava nel tubo, e quindi del botto finale. Preparato tutto questo arrivava il fuochista munito di una canna con, all’estremità, uno stoppino acceso. “Livete, livete, ca me s’armore” gridava concitato per far allontanare chi teneva il dito sul barattolo, il quale per far vedere il suo coraggio temporeggiava: “Aspitte n’atra cì, ca sennò nen fè ninde”. Alla fine, in pochi secondi, lo scatto per allontanarsi, l’accensione e il grande botto col barattolo che schizzava in aria, col rischio che ricadesse in testa a qualcuno. Il tutto col consueto strascico polemico: “Hi viste ca jete bone” diceva il fuochista. “Shi, peccà so ‘spettate a levà lu date, se no nen s’azzave pe’ ninde”. Di solito le discussioni finivano non per aver trovato un accordo, ma perché interrotte dai nostri genitori irritati e preoccupati dei botti continui che sentivano provenire dal Campo.